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Un sensore portatile, a basso costo, che misura in pochi minuti i PFAS nelle acque

Negli ultimi anni le correlazioni tra l’accumulo di PFAS nei tessuti e l’incidenza di patologie, anche gravi, sulla salute degli esseri viventi è oggetto di molti studi. Con l’acronimo PFAS si indicano le sostanze alchiliche poli e perfluorurate, molecole utilizzate in molti beni di consumo, dagli impermeabilizzanti, all’abbigliamento tecnico, alle padelle antiaderenti a sigillanti. Possono essere rilasciati nell’ambiente a causa dell’uso improprio dei prodotti o semplicemente per uno smaltimento errato. Una volta rilasciati, i PFAS diventano inquinanti persistenti, capaci di diffondersi nel suolo, nell’acqua e persino nell’aria, anche per enormi distanze.

La nuova normativa europea sulle acque potabili, che entra in vigore da quest’anno, fissa parametri di soglia molto bassi non solo per i PFAS totali, ma ancora più stringenti su una trentina di queste molecole ritenute più pericolose per la salute umana.

A oggi i PFAS si possono dosare in laboratori di analisi specializzati, mentre servirebbero sensori utilizzabili “sul campo” per la mappatura e il controllo diffuso sull’ambiente.

In questa direzione va lo studio coordinato da Marcello Berto, ricercatore RTDA del Dipartimento di Scienze della Vita di Unimore nel gruppo del prof. Fabio Biscarini, pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale Advanced Functional Materials, dove un sensore elettronico, basato su un transistor organico a modulazione di elettrolita (in inglese EGOT electrolyte-gated organic transistor) viene utilizzato per il monitoraggio di PFAS nell’acqua.

Il dispositivo, sviluppato in collaborazione con i gruppi di Pierangelo Metrangolo del Politecnico di Milano e di Lucia Pasquato dell’Università di Trieste, nell’ambito del progetto PRIN-Nifty del MUR, riesce a distinguere tre diversi PFAS, rilevando le minute interazioni non covalenti fluoro-fluoro tra questi e un monostrato molecolare autoassemblante immobilizzato su una superficie del transistor e disegnato appositamente per il riconoscimento degli inquinanti perfluorurati in soluzione. Oltre a raggiungere la misura dei parametri di legge imposti per questi PFAS (una notevole sfida tecnologica già di per sé), il sensore EGOT consente anche di ottenere informazioni energetiche sul riconoscimento tra il sensore e i PFAS in soluzione.

Il prof. Biscarini ha commentato: “Questo lavoro coordinato da Marcello Berto non ha solo una valenza scientifica importante, ma è un primo passo significativo per la realizzazione di un sensore portatile e a basso costo che permetta di misurare direttamente e in pochi minuti i PFAS nelle acque. Mi piace sottolineare come l’approccio multidisciplinare da noi adottato, in cui chimica supramolecolare, chimica di sintesi, nanotecnologie ed elettronica organica si integrano sinergicamente, abbia permesso di affrontare e risolvere un problema di notevole complessità, difficilmente alla portata di gruppi individuali. Credo sia un esempio virtuoso di come dobbiamo operare non solo nella Scienza, ma in ambiti allargati ad altre componenti attive nella ricerca e nell’innovazione. L’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), nel quale anche opero come principal investigator, ha lanciato i progetti bandiera IIT, tra cui vi è anche uno dedicato alle tecnologie per la sostenibilità a cui stiamo contribuendo anche con l’attività sui PFAS. Unimore ha sviluppato inoltre un Corso di Laurea in Chimica Verde e Sostenibile a Mantova, dove gli studenti ricevono una preparazione multidisciplinare per la transizione ecologica. L’auspicio è che questi approcci possano essere traslati allo sviluppo di innovazione nel nostro Paese in primis, per le grandi sfide legate alla Salute, all’Ambiente e in generale alla Sostenibilità.”

 

















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