Oltre un centinaio i sacerdoti presenti nella Cattedrale gremita per l’ordinazione sacerdotale di don Giacomo Aprile, della parrocchia della Sacra Famiglia, don Simone Cornia e don Federico Ottani, cresciuti a Santa Teresa.
Ecco l’omelia di mons. Castellucci
“Mosè salì sul monte” e “il Signore scese nella nube”. Il primo movimento è la salita dell’uomo e il secondo è la discesa di Dio. E se Mosè sale con le due tavole di pietra in mano, il Signore scende nella nube proclamando il suo nome, “misericordioso”. Mosè sale con la pesantezza della pietra sulla quale Dio dovrà riscrivere le dieci parole violate dal popolo; Dio scende con la leggerezza del cuore segnato dalla compassione verso la miseria umana. Tutto ciò che l’uomo può innalzare verso il Signore è un paio di pietre lisce; ciò che Dio può calare verso l’uomo è il perdono che trasforma il cuore di pietra, la “dura cervice” come la chiama Mosè, in cuore di carne.
Ma per sciogliere definitivamente quella pietra che è il cuore del popolo, per ammorbidirne la “cura cervice” e renderla capace di amare, Dio ha scelto una strada che Mosè non avrebbe osato sperare. Mosè avrebbe al massimo potuto immaginare ciò che sarebbe avvenuto nell’immediato, cioè che Dio, dopo il vitello d’oro, scrivesse di nuovo i comandamenti sulla pietra. Ma Dio in seguito supererà ogni attesa, scegliendo di percorrere la strada della misericordia, fino a capovolgere il cammino: in Cristo sarà Dio stesso a compiere il primo passo, sarà lui a scendere dal monte e raggiungere l’uomo, risparmiandogli la fatica di salire appesantito dalle pietre. Dio “ha dato il Figlio”, lo ha “mandato” – dice Giovanni – muovendosi per primo; non ha aspettato che l’uomo salisse alla cima del monte, è lui che è sceso a valle. Il nome di Dio, “misericordioso”, in Gesù non è risuonato dentro a una nube sulla sommità del Sinai, ma dentro le case, sulle strade, sulle rive del lago, sulle colline. Mosè che sale non è solo il portavoce del popolo infedele, che va a chiedere il perdono per la violazione della legge; è il portavoce dell’umanità di sempre, mossa dalle questioni che la durezza del cuore le pone, schiava troppo spesso degli idoli luccicanti e traditori, ferita dalle ingiustizie e dalle violenze, e pur sempre nella ricerca di Dio, anche se lo ammette raramente. Mosè che sale è simbolo dell’umanità che soffre e gioisce, progetta e dispera, fatica e ricerca. Il Signore non disprezza questa ricerca, che percorre tutte le culture e le religioni. Da quando l’essere umano sa di esistere, cerca un senso e in qualche modo, dunque, cerca Dio: lui si cala su questa ricerca, pur mantenendo velato il suo volto, fino a quando scende nella valle dell’uomo, fino a quando cammina, mangia, parla e dorme con l’uomo. È questo il metodo che ha trasformato le tavole di pietra della legge antica nei cuori di carne della legge dell’amore: “Dio ha tanto amato il mondo”, dice il Vangelo, da inviare il Figlio non per condannare, ma per salvare il mondo. Non dunque una misericordia semplicemente proclamata in cielo, in mezzo a una nube, ma concretamente vissuta in terra, in mezzo agli uomini. Solo chi sperimenta questa misericordia ha la forza per salire senza appesantimenti: chi non avverte l’amore smisurato di Dio su di sé, vive un’esistenza di pietra, rimane schiacciato dalle leggi più pesanti che vi siano, quelle del proprio egoismo, degli idoli luccicanti e ingannatori.
Carissimi Giacomo, Simone e Federico, non ho una parola più bella da dirvi dell’invito che San Paolo rivolge oggi: “siate gioiosi, tendete alla perfezione”. Cioè salite verso Dio, ma senza pietre, con la leggerezza di chi ama. Voi avete sperimentato la discesa del Signore nella vostra vita, siete stati raggiunti da lui nella valle della vostra giovinezza, siete stati benedetti prima nel battesimo e poi nella chiamata al diaconato e al presbiterato. Il ministero che oggi ricevete non è una sorte, una predestinazione, è una benedizione per voi stessi e per coloro ai quali testimonierete la bellezza di tendere alla perfezione, cioè a Dio. A condizione però che “siate gioiosi”. Tendere alla perfezione, a Dio, senza la gioia diventa un peso: è come salire sul monte con le tavole di pietra in mano. Tendere alla perfezione nella gioia, invece, è esaltante: è come aprire la porta a un amico la cui visita illumina la giornata. Oggi non diventate custodi di una legge scritta su tavole di pietra, ma diventate testimoni gioiosi di un amore gioioso, che si vuole calare nei cuori umani. Sapete bene che il vostro ministero non sarà una passeggiata, perché spesso dovrete implorare il Signore, come Mosè, di ammorbidire la dura cervice umana: la vostra e quella dei fratelli. Dovrete, come quel grande profeta, stare dalla parte degli uomini, per implorare il perdono di Dio. Ma se lo farete come innamorati di Gesù, che si è messo per sempre dalla parte degli uomini, sarete comunque gioiosi. La gioia, quando è piantata nella profondità del cuore, non la possono certo sradicare le avversità, i peccati personali, la contrarietà e l’indifferenza di molti, le delusioni inevitabili della vita.
Oggi ricevete tanti applausi e sorrisi. Domani, in occasione della prima Messa, ne riceverete ancora di più. E probabilmente l’estate, tra prime Messe e gioiosi incontri, sarà molto radiosa. Ma già a settembre, con i primi impegni parrocchiali, partiranno anche tensioni e critiche. Non ve l’ho detto prima, per paura che oggi non vi presentaste. Se però siete piantati nel Signore Gesù e nella Chiesa, la gioia non verrà sradicata. Anzi, voi sapete che se non arrivassero le critiche, sarebbe un problema, perché ricadreste sotto uno dei “guai” pronunciati da Gesù: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6,26). Se sarete piantati nel Signore, troverete la vostra gioia più nella semina che nel raccolto, più nell’impegno che nel risultato, più nel cammino che nel traguardo. È stato così anche per Mosè. Questa gioia non la può sradicare nemmeno la morte, vinta da colui che Dio ha mandato per salvare il mondo.
La gioia non è mai coniugata al singolare, ma è sempre un “noi”. La gioia che ora avete nell’animo è il frutto non solo della vostra generosa risposta al Signore, ma anche della rete di relazioni che in questi anni si è intessuta attorno a voi. Per questo si respira qui una gioia profonda: nelle vostre famiglie, che vi hanno insegnato ad amare e a credere; nelle vostre comunità di provenienza e di servizio, che vi hanno aiutato a riconoscere la chiamata; nel presbiterio diocesano, una famiglia oggi impreziosita dal vostro ingresso; nel Seminario diocesano e nell’Almo collegio Capranica, nelle comunità che vi hanno accompagnato in questi anni, che sono state ricordate, e, con l’aiuto dei superiori, hanno alimentato la vostra vocazione; nelle istituzioni accademiche in cui vi siete formati, lo Studio Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia e la Pontificia Università Gregoriana in Roma. A tutti va il mio ringraziamento, ma soprattutto all’autore stesso della gioia, all’unica sorgente della nostra vita e del nostro ministero, a colui che ha voluto risparmiarci faticose salite, al solo che merita tutte le nostre energie, a quel Figlio inviato non per condannare, ma per salvare il mondo.