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Un altro studio italiano, coordinato dalla prof. Cristina Mussini di Unimore, getta luce sull’HIV

Cristina-MussiniUn’altra tappa nel lungo percorso che si spera possa portare alla definitiva sconfitta dell’HIV è stata messa a segno da ricercatori italiani, coordinati dalla prof. Cristina Mussini di Unimore – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Direttore della Clinica delle Malattie Infettive dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena.

Uno studio di questi ricercatori ha consentito di far luce su uno degli aspetti di morbidità, ovvero l’intensità dell’impatto di una malattia sulla popolazione, e mortalità, ovvero quante delle persone di un certo “insieme” scelto per la casistica va incontro a morte, nei pazienti infetti con HIV, il virus che causa l’AIDS. I dati ottenuti in questo studio saranno quindi utilizzati per identificare i pazienti con maggior rischio di eventi e di decesso. L’importanza di questa ricerca è sottolineata dalla attenzione che vi ha dedicato la prestigiosa rivista scientifica internazionale “Lancet HIV”, che ne ha pubblicato i risultati.

L’analisi, che ha riguardato 3.236 pazienti seguiti per oltre 16 anni nell’ambito di un progetto portato avanti all’interno dello studio prospettico “ICONA”, coinvolgente circa 50 centri in Italia,  chiarisce il ruolo del rapporto tra le principali popolazioni di linfociti presenti nel sangue, ovvero le cellule helper CD4+, e le cellule citotossiche CD8+, nella progressione della infezione da HIV e nel suo controllo da parte del sistema immunitario.

L’infezione da HIV colpisce i linfociti CD4+, il cui numero cala fin da subito in modo significativo provocando la grave immunodeficienza tipica dell’infezione. La terapia antiretrovirale altamente efficace è però in grado di bloccare la replicazione virale e permette al sistema immunitario di ricostituire in larga misura le sue cellule. Lo studio guidato dalla prof.ssa Cristina Mussini ha dimostrato come l’analisi del rapporto tra cellule CD4+ e cellule CD8+ sia un fondamentale e fortissimo biomarcatore predittivo di successo non solo immunologico, ma anche clinico. I pazienti, infatti, che a seguito di terapia erano in grado di normalizzare tale rapporto, hanno dimostrato un bassissimo rischio di presentare eventi avversi, cosa che invece non avveniva per i pazienti in cui la terapia non riusciva a modificare l’alterato rapporto tra questi tipi cellulari.

Si tratta di una analisi immunologica piuttosto semplice, eseguita da decine di anni nei laboratori di tutto il mondo, che se interpretata nel giusto modo diventa un fortissimo predittore di morbidità e mortalità.

“La nostra idea – afferma la prof.ssa Cristina  Mussini – era di verificare sulla coorte ICONA, tra le più importanti a livello internazionale, l’esistenza di un marker predittivo dello stato infiammatorio cronico nei soggetti con HIV. La mancata  normalizzazione del rapporto CD4/CD8 si associa in modo indipendente dalla carica virale e dal valore corrente dei CD4 non soltanto agli eventi AIDS-definenti, ma anche a quelli non AIDS-definenti, quali eventi cardiovascolari e renali. Questi risultati forniscono al clinico uno dei pochi strumenti utili, insieme ai fattori di rischio tradizionali, come fumo, ipertensione, o presenza di HCV, per definire le categorie di pazienti a maggior rischio di eventi non AIDS-definenti. Noi abbiamo dimostrato come sia il rapporto CD4/CD8 sia fondamentale in quanto espressione di uno stato infiammatorio generale dell’organismo”.

Per la sua importanza e la rilevanza clinica, lo studio ha ricevuto sulla stessa rivista un commento editoriale da parte di due dei maggiori esperti internazionali del settore, i prof. Sergio Serrano-Villar dell’Università di Madrid e Steven G. Deeks dell’Università di San Francisco, i quali affermano che: “Questi risultati colmano un gap nella gestione attuale del paziente con HIV in ART da lungo tempo, e le loro implicazioni possono essere molto ampie per la pratica clinica, prevedendo ad esempio una maggior attenzione ai soggetti con un rapporto CD4/CD8 persistentemente basso, nei quali potrebbe essere importante un approccio mirato agli altri fattori di rischio tradizionali, come iperlipidemia, ipertensione, stili di vita errati e abuso di sostanze”.

 

















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