Il 16 ottobre ricorre la giornata mondiale dell’alimentazione. Quest’anno la Fao dedica la celebrazione alle fluttuazioni dei prezzi i cui aumenti, secondo la Banca mondiale, nel biennio 2010-2011 hanno spinto 70 milioni di persone nella povertà estrema. Spero vivamente che questa circostanza possa fornire lo stimolo e l’occasione per riflettere sul legame imprescindibile tra agricoltura e alimentazione.
Più che mai in questo momento il mondo ha fame di agricoltura non solo – anche se già sarebbe un motivo ampiamente sufficiente – per il miliardo di persone che soffre di denutrizione cronica, ma anche per il progressivo aumento demografico del pianeta.
L’Onu stima che nel 2040 la terra sarà popolata da 9 miliardi di persone a fronte degli attuali sette. Ecco quindi la necessità di recuperare l’agricoltura come fattore fondamentale per rispondere ad uno dei bisogni primari dell’uomo: l’alimentazione. Noi che nel nostro Paese, oggi, ci troviamo ad affontare il problema opposto – vale a dire l’obesità diffusa, la quantità pletorica, la ricerca esasperata della qualità della nutrizione – abbiamo probabilmente perso il senso del reale valore del cibo, del suo significato e delle sue origini, offuscati come siamo da un’offerta sovrabbondante rispetto ai bisogni. Non ci rendiamo conto che dietro tutto ciò che consumiamo ci sono il lavoro di famiglie di agricoltori e la fertilità della terra. Di una terra che in questi anni abbiamo maltrattato e sfruttato, erodendo suolo agricolo e compromettendo qualità del paesaggio e dell’ambiente per le future generazioni .
Il professor Mario Liverani, docente all’Università La Sapienza di Roma, nell’approfondire il concetto di accumulazione primaria afferma che un popolo punta allo sviluppo quando produce eccedenza non per aumentare i consumi interni, bensì per creare ricchezza da investire in infrastrutture e ricerca. L’Italia ha mancato tutti e due gli obiettivi, poiché produce meno di quanto consuma e ha tagliato oltremodo le risorse alla ricerca. Ma se i Paesi dai quali noi, oggi, importiamo, domani dovessero trattenere le materie prime per il loro popolo che nel frattempo ha acquisito più capacità negoziale ed è demograficamente aumentato? Come potremmo ricreare agricoltura là dove abbiamo distrutto la terra? E, in un momento di crisi come quello che sta investendo l’Italia, perché non considerare l’agroalimentare un settore su cui investire per lo sviluppo? Il made in Italy, apprezzato in tutto il mondo già oggi nelle entrate del manifatturiero, occupa il secondo posto dopo la meccanica. I nostri prodotti dell’agroalimentare sono più imitati che esportati: non è forse, questo, un tratto identitario da capitalizzare?
Roberta Rivi
Assessore all’Agricoltura della Provincia di Reggio Emilia