L’Europa chiede all’Italia di attuare il principio di parità di trattamento fra uomini e donne riguardo il regime pensionistico, definito discriminatorio perché fissa l’età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile (sentenza della Corte di Giustizia Europea 13/11/2008 n. C-46/07); la richiesta europea è, quindi, di innalzare l’età pensionabile delle donne italiane a 65 anni (a cominciare dalle dipendenti pubbliche) come già avviene per gli uomini.
La richiesta europea nei confronti dell’Italia è assolutamente legittima, anche perché noi donne da sempre ci battiamo proprio per raggiungere le pari opportunità, combattendo ogni forma di pregiudizio e discriminazione.
Forse, però, l’Europa non conosce alcuni particolari della situazione lavorativa delle donne italiane rispetto ai colleghi uomini:
La maggiore precarietà (l’accesso delle donne al lavoro stabile è più difficoltoso)
La scarsità o l’inadeguatezza dei servizi di cura dei figli e di assistenza di anziani/disabili
La maggiore scolarizzazione, con il conseguente ingresso ritardato delle donne nel mondo del lavoro (le statistiche ci dicono che le donne studiano di più degli uomini e che raggiungono risultati migliori); inoltre, la difficile o insoddisfacente progressione di carriera, soprattutto rispetto all’investimento in formazione
La minore retribuzione media, a parità di condizioni contrattuali e di responsabilità (le statistiche ci dicono che le donne dipendenti guadagnano circa il 27% in meno rispetto agli uomini e circa il 40% in meno se lavoratrici autonome)
La minore pensione, sempre a parità di condizioni (le statistiche ci dicono che, le donne percepiscono circa il 30% in meno degli uomini).
La discriminazione di genere in Italia non è, quindi, solo legata all’età anagrafica ma è una discriminazione soprattutto economica e sociale che dovrebbe far riflettere i nostri politici al governo e all’opposizione. L’innalzamento dell’età pensionabile delle donne a 65 anni dovrebbe essere una scelta volontaria e non un obbligo di legge.
Il pensiero della CPO TDA è ben rappresentato da un’intervista resa il 24 febbraio 2007 al Corriere della Sera da Marisa Montegiove; la coordinatrice del Gruppo Donne di Manager Italia dichiara di essere favorevole alla “pari anzianità” […] «solo nel momento in cui esisteranno delle tutele per le donne: una vera parità nei ruoli familiari e nella carriera, senza che gli impegni a casa arrestino la crescita professionale, oltre a politiche sociali e strutture che supportino la lavoratrice nella cura dei figli e degli anziani. Allora potremo parlare di parità nelle pensioni. Oggi è prematuro. Oggi il lavoro femminile è più logorante di quello maschile, per i tanti ruoli che la donna deve assumere, in ufficio e a casa. Quella dell’età pensionabile sarebbe una finta parità, perché di nuovo ci verrebbe chiesto più di quanto si pretende dagli uomini. Non è che dobbiamo dare per poi ottenere: noi abbiamo già dato. Perché non guardiamo ai Paesi nordici, dove le tasse sono si la metà dello stipendio ma esistono servizi efficienti di supporto alla maternità e alla cura degli anziani?».
La Presidente della Commissione, Dott.ssa Sandra Cavazzuti