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Domani uno dei testimoni contro la mafia alla Gabella di via Roma a Reggio Emilia

Domani, giovedì 4 marzo, alle ore 21 alla Gabella di via Roma la testimonianza di una delle vittime della mafia, Vincenzo Agostino e sua moglie che hanno perso il figlio e la loro famiglia in una sola notte. Da allora la missione per questa coppia è ristabilire la verità e contrastare la mafia.

Vincenzo è il padre del poliziotto ucciso insieme alla moglie, Ida Castellucci (incinta di 5 mesi) nell’agosto di diciassette anni fa a Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo, attende ancora di sapere chi siano mandanti ed esecutori di quell’omicidio per il quale non ha pagato ancora nessuno. Sua moglie non ha ancora tolto il lutto, lui dal quel tragico 5 di agosto del 1989 non ha più tagliato barba e capelli che sono cresciuti lunghi e canuti sulle sue spalle tanto da renderlo ormai un’icona dei familiari delle vittime della mafia: ha giurato di farli crescere fino a che non saprà perchè hanno ammazzato suo figlio Nino.

C’era una volta un uomo con una lunga barba bianca. Sembrerebbe una favola. E invece è una tragedia. Quell’uomo c’è ancora. E anche la sua barba. Non la taglia dal 1989, da quando suo figlio è stato ucciso. Quella barba è un simbolo. E’ un monito a non dimenticare. E’ il grido del bisogno di verità che quest’uomo, insieme alla moglie, chiede da tantissimi anni. E che la giustizia ancora non è stata capace di soddisfare. Quest’uomo si chiama Vincenzo. E la moglie Augusta. Sono i genitori del poliziotto Antonino Agostino, ucciso insieme alla moglie Ida Castellucci (incinta di 5 mesi) nell’agosto del 1989 a Villagrazia di Carini. “Noi soffriamo d’insonnia. Ci mancano tre pezzi di famiglia” racconta. Sono persone che portano dentro un dolore grandissimo ma che hanno deciso di non chiudersi in loro stessi perché “se ci si chiude in se stessi non c’è più memoria, non c’è più speranza”. E per la memoria e con la speranza, prendendo a prestito una parabola raccontata da Don Ciotti durante l’ennesima commemorazione per l’anniversario della morte del figlio, mi dice di sentirsi come quell’uomo a cui il Signore ha dato una bisaccia con il pane e l’acqua e a cui ha detto di incamminarsi. E questo lungo cammino fino ad ora li ha portati nelle piazze e nelle scuole, nei cortei e nelle manifestazioni. “Siamo presenti ovunque ci invitino, ovunque sia opportuno esserci per raccontare la nostra storia, la storia di nostro figlio, per raccontare la storia tragica di questa Sicilia”. E’ un impegno il loro che ormai trascende la loro vicenda personale, non lo fanno solo per la loro sete di verità e giustizia, lo fanno perché hanno capito che l’educazione, soprattutto dei più giovani, ai principi e ai valori della giustizia, della legalità e della verità è fondamentale per un Paese che vuole crescere ed avere un futuro. “La società è come un cesto dove ci sono le mele buone e le mele marce. Noi, attraverso il nostro impegno, cerchiamo di mettere dentro il cesto delle mele buone in modo tale che possano contagiare quelle marce”. Una visione ottimista e contagiosa, incoraggiata dall’affetto delle tante persone che in questi anni hanno supportato le loro iniziative, che vanno avanti nonostante l’indifferenza di quelli che girando loro le spalle dicono “lassamuli sbraitari”. A questi ormai si sono abituati. E’ il sistema giustizia quello che li convince meno, soprattutto per ciò che riguarda il versante dei cosiddetti “collaboratori di giustizia”.

“Oggi l’Italia è ridotta ad ascoltare i delinquenti, prendere per buono quello che dicono loro e sappiamo benissimo che il 99% delle cose che dicono le dicono per loro rendiconto, per farsi mantenere dallo Stato. E poi, i veri figli dello Stato, caduti sul campo, sono abbandonati a se stessi. Le autorità ti danno una pacca sulla spalla e poi si dimenticano di tutto”. E’ lo sfogo amaro di un padre che ha tante domande dentro e che cerca risposte che nessuno sembra capace di dargli o che, peggio, qualcuno ha interesse a non dare. Perché il caso di suo figlio sembra essere talmente scomodo che dopo 16 anni di indagini è stato archiviato a causa di un “segreto di stato” che sembra essere adatto a preservare la sicurezza personale di qualcuno piuttosto che la sicurezza nazionale. Infatti, il caso Agostino potrebbe non essere solo uno dei tanti casi di omicidi di mafia che hanno insanguinato gli anni 80 siciliani, ma potrebbe nascondere risvolti più complessi e delicati, che un tempo forse erano nascosti nell’armadio della casa di Altofonte del poliziotto.

In un biglietto trovato nella sua tasca dopo la morte c’era scritto: “Se mi succede qualcosa guardate nel mio armadio”. Ma da quell’armadio alla famiglia Agostino è stato restituito solo un diario con la lista della spesa. Sono questi dubbi, queste incoerenze, questi pezzi mancanti che oggi Vincenzo Agostino e la moglie vorrebbero vedere dissipati. La verità. Qualunque essa sia. Affinché se ne preservi la memoria. E torna in mente Rocco Chinnici quando, citando Leonardo Sciascia, una volta disse: “Il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare”. E noi per questo ci impegniamo a non dimenticare perché ci piacerebbe vedere un giorno la faccia pulita di quest’uomo. Vorrebbe dire che giustizia e verità sono state ristabilite.
















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