Cosa fa dell’Emilia Romagna la prima regione italiana per numero di giovani imprese nate dalle università e dai centri di ricerca? E dell’Ateneo di Modena e Reggio Emilia, uno dei più prolifici in regione? L’ambizione accademica dei professori, e la possibilità di usare laboratori e strutture delle università di origine; non sono invece sufficienti gli incubatori d’impresa e gli uffici per il trasferimento tecnologico.
Così sembrano pensarla, almeno, gli stessi fondatori degli spin-off accademici (imprese nate dagli atenei) della regione, stando al primo esaustivo studio in materia, condotto da alcuni ricercatori del Dipartimento di scienze aziendali dell’Università di Bologna, guidati dalla professoressa Rosa Grimaldi.
Il tema delle nuove imprese hi-tech, riportato alla ribalta da recenti indagini nazionali e locali secondo cui negli ultimi quattro anni in Emilia Romagna sono nati quasi 100 spin-off della ricerca su 450 in tutt’Italia (14 dall’Università di Modena e Reggio Emilia), sarà domani al centro di un convegno, organizzato da Aster, nell’ambito dell’iniziativa “Ricubo – ricercando l’innovazione, gli investitori e le nuove imprese”. L’incontro si terrà presso l’Area della ricerca di Bologna, in via Gobetti, 101 (Ricubo Aster).
L’indagine dei ricercatori bolognesi ha fatto una radiografia degli spin-off accademici della regione. In particolare ha approfondito le motivazioni e gli incentivi che hanno spinto i loro fondatori universitari, più che altro professori e ricercatori, ad intraprendere un’attività aziendale. Ai primi posti figura ovviamente la disponibilità di tecnologie richieste dal mercato industriale, ma questo non sorprende, trattandosi proprio di imprese costituite per sfruttare economicamente i risultati della ricerca scientifica accademica. Un ruolo rilevante è inoltre giocato dalle università, ma non tanto per gli strumenti a sostegno degli spin-off, come incubatori d’impresa e uffici per il trasferimento tecnologico, che non sembrano percepiti come incentivi primari, bensì perché mettono a disposizione, delle neonate imprese, laboratori, strutture e strumentazioni dei dipartimenti. Emerge inoltre un elemento non scontato tra i più forti incentivi di natura individuale. E’ l’ambizione accademica, e non lo spirito imprenditoriale, la vera molla motivazionale dei professori che si mettono in affari. Non vogliono diventare manager, bensì super-professori. Vedono nelle loro nuove imprese hi-tech opportunità per rafforzare la propria attività di ricerca, trovare risorse economiche per pagare i giovani collaboratori più brillanti e tenere unito il loro team scientifico, comprare nuove apparecchiature e strumentazioni, accrescere il proprio prestigio accademico. Non si tratta cioè di persone che ad un certo punto della vita decidono di cambiare mestiere, appendere il tocco al chiodo e reinventarsi come imprenditori. Ciò comporta anche riflessi problematici sulla natura delle imprese, il cui modello di business dovrebbe essere più orientato al mercato e la cui crescita risulta, in media, piuttosto lenta. Un’elaborazione più estesa dei dati raccolti su tutte le imprese nate da atenei ed enti di ricerca sarà presentata nella sessione plenaria di Ricubo, venerdì mattina. Nei prossimi mesi l’indagine sarà inoltre estesa alle imprese ad alta tecnologia non scaturite dalla ricerca pubblica.
“Bisogna riflettere sulle misure più efficaci a sostegno dell’imprenditoria innovativa – osserva Paolo Bonaretti, direttore di Aster -. Per questo è importate lo studio dell’Università di Bologna, per questo abbiamo organizzato Ricubo: un’occasione di discussione in cui le giovani imprese hi-tech saranno messe sotto i riflettori e potranno sfilare davanti ad un pubblico di potenziali investitori. L’ultimo giorno sarà premiata quella che avrà fatto più colpo”.
Che il problema del coinvolgimento degli investitori privati sia il tallone d’Achille delle nuove imprese ad alta tecnologia emerge anche dai nuovi dati dei ricercatori bolognesi. Su 59 spin-off accademici esaminati, 48 hanno attinto risorse direttamente dalle proprie tasche, 43 dalla pubblica amministrazione, 12 da altre imprese, solo 8 da banche, 1 da venture capital e nessuno da business angel. Allargando lo sguardo a tutti le imprese censite, le università più prolifiche sono quelle di Bologna (42), Ferrara (15), Modena e Reggio Emilia (14). Seguono gli atenei di Parma (10) e la Cattolica a Piacenza (2). L’apporto degli enti di ricerca vede, nell’ordine, il Cnr (6), l’Enea (5), e l’Infm (4). La distribuzione per settori di attività registra una prevalenza di quello relativo all’ambiente e al territorio (21), seguito dal bio-medicale (16), Ict (15), farmacologico e chimico (12), biotecnologico (10), elettronico (9), agroalimentare (6), e quelli tradizionali raggruppati insieme (8).