Giuseppe Vandelli, consigliere comunale della Lega a Sassuolo e coordinatore provinciale della Lega Giovani Modena, torna in queste ore sul no alla moschea:
In questi giorni mi capita di spiegare ad amici e parenti per quali ragioni ci opponiamo al cambio di destinazione d’uso dell’immobile ai quadrati per trasformarlo in luogo di culto. Chi non condivide la nostra posizione solleva spesso dubbi e interrogativi ragionevoli, che meritano di essere discussi senza pregiudizi o banalizzazioni.
Il linguaggio semplice e spesso diretto della politica e della nostra campagna di raccolta firme porta molte persone a pensare che si tratti di un’opposizione nient’altro che arbitraria e ideologica, quando in verità non è così.
Per cui ho deciso di scrivere questo post, per chiarificare quello che, a mio avviso, è il principale motivo (tra i tanti) per cui ci opponiamo al cambio di destinazione d’uso e rispondere così all’obiezione più comune che ci viene mossa:
“Il diritto di culto dev’essere garantito, lo dice la Costituzione”.
È vero: all’art. 19 della nostra Carta è sancito il diritto di ognuno a praticare liberamente la propria fede religiosa, in forma individuale o associata.
Anche il diritto al lavoro ai sensi dell’articolo 4 è garantito ai cittadini: sulla base di questo uno potrebbe pensare di recarsi di fronte a un qualsiasi ufficio della Pubblica Amministrazione e pretendere che lo Stato gli conceda una posizione stabile e retribuita (in fin dei conti se lo dice la Costituzione, perché non pretenderlo?).
Questo tuttavia non accade per una ragione molto semplice: la Costituzione è programmatica.
Stabilisce cioè diritti e doveri nell’ottica di obbiettivi che lo stato si impegna a raggiungere nel tempo, dotandosi degli strumenti opportuni.
Ma quali sono dunque gli strumenti in relazione al diritto di professione religiosa? Ce lo dice l’articolo 8 della Stessa ai comma 2,3:
“Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.”
È quindi necessario dotarsi di accordi scritti (come il Concordato tra Stato e Chiesa Cattolica) per regolare i rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose. Questo oggi vige in effetti per quasi tutte le minoranze religiose presenti in Italia: luterani, anglicani, evangelici, ortodossi, ebrei, induisti, buddisti…
Tutte meno che una: l’Islam.
L’Islam non ha una rappresentanza unica, ma solo tante comunità diffuse sul territorio italiano, ognuna con il proprio ordinamento.
Ma nella pratica questo cosa comporta?
Comporta il fatto che non esiste un albo degli imam (non ci sono dunque criteri unici per la formazione), le associazioni non sono vincolate alla pubblicità dei bilanci (e quindi alla trasparenza nella provenienza dei fondi), non è stata sottoscritta una presa di distanza netta dagli estremismi e dal terrorismo, ne il rifiuto della poligamia e altri aspetti non concordi con l’ordinamento costituzionale e giuridico italiano.
E già in tanti posti in Italia si vedono purtroppo i risultati della radicalizzazione.
Penso all’esempio dell’imam di Bologna Omar Mamdouh che aizza i fedeli con i suoi sermoni d’odio sostenendo che “l’Islam arriva in tutti i posti del mondo e, per chi non si adeguerà, arriverà la morte”.
Lo stesso che è succeduto a Zulfiqar Khan, l’imam che inneggiava ad Hamas, espulso per motivi di sicurezza nazionale.
Ma penso anche a Sassuolo, quando nel 2009 l’allora sindaco Pattuzzi (non certo un uomo di destra) dovette vietare la concessione di una sala comunale alla comunità islamica per un evento perchè erano stati invitati a parlare come relatori tre fondamentalisti di fama nazionale.
Questi eventi spiacevoli non rappresentano semplicemente casi isolati, ma sono i prodotti di un ‘vuoto normativo’ di fondo:
NON C’È UN’INTESA.
Finchè questi presupposti non esisteranno, la nostra posizione è che non sia opportuno dare concessioni di questa portata alle comunità islamiche.
Farlo rappresenterebbe una concreta esposizione al rischio di radicalizzazione e come tale una scelta politica che noi giudichiamo irresponsabile.


