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Le assessore Rabitti e Mahmoud sul consenso informato per progetti di educazione sessuale nelle scuole

Marwa Mahmoud (immagine Facebook)

L’assessora alla Cura delle persone con delega alle Pari opportunità Annalisa Rabitti e l’assessora alle Politiche Educative Marwa Mahmoud intervengono sul disegno di legge Valditara che introduce il consenso informato per progetti scolastici di educazione sessuale nelle scuole.

Il disegno di legge “Valditara” richiede il consenso informato preventivo delle famiglie per svolgere negli istituti scolastici attività curricolari ed extracurricolari legate alla sessualità. Crediamo che le scuole siano il luogo dove crescere come studenti e studentesse, ma allo stesso tempo siano anche uno spazio privilegiato dove potere affrontare temi importanti per la crescita, come le relazioni intime, sessuali ed affettive. Approfondire questi temi significa dare la possibilità a tutti e tutte di acquisire strumenti di lettura per conoscere e conoscersi, potere analizzare le proprie relazioni con degli strumenti adeguati, e riconoscere quando una relazione è sbilanciata, non paritaria, a volte purtroppo anche violenta. Ci sono ragazzi e ragazze che sono molto consapevoli, perché alle spalle hanno famiglie che offrono dialogo e strumenti per cercare le risposte. Ce ne sono però molti altri che non hanno mai sentito parlare di questi temi e si trovano sprovvisti degli attrezzi necessari per comprendere quello che stanno vivendo.

Crediamo che la scuola sia un vero e proprio presidio di democrazia nel momento in cui accoglie la possibilità di essere uno spazio libero in cui tutti e tutte, indistintamente dal proprio background personale, possano confrontarsi su temi complessi.

L’Associazione Nondasola da oltre vent’anni porta avanti laboratori di prevenzione nelle scuole di ogni ordine e grado di Reggio Emilia e provincia: lavorando insieme, abbiamo toccato con mano quanto questi spazi di riflessione siano fondamentali per fare emergere la consapevolezza di ciò che si assiste o si vive sulla propria pelle.

Ci poniamo dunque questa domanda: quanto sarà alta la probabilità che il consenso a partecipare a un laboratorio di prevenzione della violenza venga firmato nelle famiglie dove c’è un papà violento che nei confronti della moglie/compagna/partner agisce violenza, a cui i figli e le figlie assistono il più delle volte affranti da un senso di impotenza?

Chiedere un consenso firmato significa mettere un limite, significa non dare la possibilità a tutti e tutte di acquisire consapevolezze necessarie per affrontare la vita quotidiana: significa fare un passo indietro verso l’autodeterminazione dei ragazzi e delle ragazze, verso la parità e la libertà.

Spesso, quando si parla di attività di prevenzione nelle scuole sui temi della violenza maschile, avvertiamo una sorta di sottostima o scetticismo rispetto ai benefici che queste attività di educazione affettiva e alle emozioni possono apportare nelle nuove generazioni, fornendo loro quegli strumenti necessari per avere delle relazioni sane e alla pari, anche nei confronti degli adulti, per evitare di finire senza esserne consapevoli in relazioni non paritarie e che possano essere gravi e pericolose per loro. Soltanto avendo gli strumenti necessari, si può riconoscere su se stessi, sui propri coetanei e sulle persone adulte, le diverse forme di violenza, siano esse verbali, fisiche, psicologiche o economiche. Se però non si ha un alfabeto comune e una scatola degli attrezzi che aiutino a decifrare queste situazioni, si finisce con l’essere molto più esposti a qualsiasi forma di violenza e con il normalizzarla, pensando che tutto sommato alcuni comportamenti anche banali, dal controllare il telefono allo schiaffo dato in un momento di rabbia, rappresentino qualcosa di accettabile.

Non possiamo non considerare, inoltre, che l’introduzione della richiesta del consenso pone un ostacolo aggiuntivo al fatto di poter partecipare alle attività di prevenzione, perché implicitamente lascia intendere che queste possano essere considerate una perdita di tempo e non correlate a qualcosa che invece può accadere direttamente a qualsiasi persona.

Di fronte a segnali di discriminazione, abusi, violenza abbiamo il dovere di dirci che non siamo di fronte a un fatto privato che riguarda solo la sfera famigliare. La violenza maschile sulle donne non è una emergenza ma un fenomeno strutturale che riguarda tutti e tutte. Se la violenza domestica rimane nascosta, chi agisce violenza non viene responsabilizzato e chi la subisce si sente sola e isolata. Un approccio pubblico permette di attivare meccanismi di prevenzione e intervento più efficaci, come ad esempio la formazione di professionisti, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e l’implementazione di leggi e reti di supporto. L’idea di “pubblico” significa che ogni individuo ha un ruolo attivo nel contrastare la violenza: riconoscere i segnali, non girarsi dall’altra parte e sostenere chi si trova in difficoltà.

Crediamo che questa legge sia un ulteriore passo per chiudere gli occhi e togliere delle responsabilità che invece sono e devono essere di tutti e tutte.

Non facciamo finta di niente”.

 

















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