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Premiato alla memoria il deportato Pietro Santi di Castelnovo, una storia esemplare da ricordare

Nella giornata di ieri, 27 gennaio, in Prefettura a Reggio Emilia, si è svolta la celebrazione per la consegna delle Medaglie d’onore conferite, con decreto del Presidente della Repubblica, a 14 cittadini di Reggio Emilia deportati nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale. Tra questi c’era anche Pietro Santi di Castelnovo Monti. Alla cerimonia quindi hanno partecipato il figlio di Pietro, Enrico Santi, sua moglie Nicoletta e il Sindaco Enrico Bini. “È stato un momento molto toccante, commovente, davvero una grandissima emozione” raccontano il figlio e la nuora di Pietro Santi. “Abbiamo scolpiti nella memoria i racconti di Pietro sulla sua esperienza di prigionia, su un grandissimo dolore per quello che aveva vissuto e aveva visto, che traspariva anche se lo raccontava sempre con grande delicatezza”.

“È fondamentale ricordare figure ed esperienze come quella di Pietro – aggiunge il Sindaco Bini – perché dobbiamo tramandarle ai giovani, far capire per cosa tanti nostri compaesani e montanari hanno lottato e sofferto negli anni della guerra. Per far capire l’enorme, profondo valore che ha la nostra democrazia e le Istituzioni che la compongono, dato che a volte tendiamo a sminuirle e sottolinearne solo gli aspetti che ci infastidiscono”.

La storia di Pietro Santi raccontata dal figlio

Correva l’anno 1939: mio padre Santi Pietro (nato il 28 Giugno 1920) inizia il servizio militare negli Alpini, Brigata Tridentina, sesto Reggimento Alpini, Battaglione Verona.

Dopo un anno circa di permanenza sul fronte occidentale ai confini con la Francia, a seguito dell’occupazione tedesca della medesima avvenuta in pochi giorni nel giugno 1940, mio padre ed il suo battaglione vennero mandati sulle montagne albanesi a combattere contro i greci.

Dopo la caduta della Grecia fecero rientro in Italia e da Bari furono inviati ad Asti dove venne ricostituito il suo Battaglione. La sua permanenza ad Asti durò circa un anno, fino all’inizio dell’estate 1942 quando vennero spediti sulle rive occidentali del Don per l’inizio della drammatica campagna di Russia. Nel Gennaio del 1943 inizia la potente controffensiva russa che distrusse completamente le divisioni italiane posizionate a nord; essendo la divisione di mio padre più a sud poterono organizzare la ritirata che durò circa venti giorni, per evitare di essere circondati dai russi. Alla brigata Tridentina si accodarono tutti i reparti dispersi che formarono una colonna interminabile di disperati, lunga molti chilometri. Mio padre raccontava spesso la durezza di quella tragica marcia di rientro, al gelo, con uomini affamati, spossati, con il terrore di ammalarsi o di non avere più le forze per proseguire questo lungo cammino e di conseguenza morire assiderati.

Proprio a lui capitò, circa a metà percorso, di ammalarsi; febbricitante e con un grosso ascesso fu grazie alla grande umanità di un suo compagno (che poi divenne un suo carissimo amico per tutta la vita) che riuscì a salvarsi poichè lo trasportò sulle sue spalle per decine di chilometri. Dopo circa tre settimane di marcia arrivarono a Nikolaevka, un grosso paese con una enorme spianata coperta da neve e ghiaccio; lì rimasero impietriti poichè si accorsero di essere circondati dai carri armati russi. Nella più totale disperazione, convinti di avere di fronte solo la morte, seguirono il loro Generale Luigi Reverberi (di Montecchio) che con una mossa estremamente coraggiosa e ardita riuscì a farli uscire dall’accerchiamento.

Mio padre fu tra i fortunati che sopravvisse a questa tragica battaglia. Ripreso il viaggio di rientro, i superstiti arrivarono al Brennero dove ricostituirono i reparti che erano rimasti senza armi e soldati. All’alba del 9 settembre del 1943, a seguito della firma dell’armistizio da parte dell’Italia di cui non vennero per nulla informati, si ritrovarono circondati dai carri armati tedeschi e furono fatti prigionieri.

Mio padre venne portato nel campo di concentramento di Hollenstein in Prussia orientale dove rimase per tutto l’inverno. All’inizio del 1944 venne mandato in un’azienda agricola nelle vicinanze del campo dove, avendo esperienza di cavalli, fu impiegato come stalliere e conducente dei cavalli da tiro nei lavori quotidiani nei campi. Qui rimase circa un anno fino all’arrivo dei russi all’inizio del 1945. A questo punto viene fatto prigioniero dai russi che lo trasferirono a Leopoli in un campo di concentramento e smistamento dove rimase per svariati mesi anche dopo la fine della guerra. Raccontava spesso che durante questa attesa infinita dove fame e freddo regnavano sovrani, la principale preoccupazione era capire la loro destinazione: essere spediti verso est con destinazione Siberia e morte sicura o verso ovest con ritorno a casa.

Finalmente all’inizio di Dicembre del 1945 venne rilasciato e potè fare rientro a casa il 23 dello stesso mese quando tutti, dopo 6 anni di assenza, erano convinti fosse morto o disperso.

A questo punto può ricominciare la sua vita: si sposa con la fidanzata Anita che lo aveva aspettato per tutti quei lunghi anni e da questa felicissima unione sono nati 3 figli, due maschi Enrico e Ninetto e la femmina Anna. Purtroppo il destino gli riserverà ancora un immenso dolore: il secondo maschietto, Ninetto, nasce con un soffio al cuore, malformazione cardiaca oggi trattata con un banale intervento, al tempo purtroppo non esistevano rimedi e fin dai primi mesi di vita la diagnosi è crudele; malgrado tutti i tentativi e i viaggi fatti negli ospedali più specializzati Ninetto è destinato a morire all’età di 18 anni quando il suo cuore non riesce più a sostenere lo sviluppo del suo corpo di adolescente.

Fin dai primi anni del dopoguerra assume la carica di presidente della sezione di Felina dell’ ANA (Associazione Nazionale Alpini) che ogni anno partecipava attivamente ai raduni provinciali, regionali e nazionali. Per lo svolgimento delle sue attività lavorative si recava spesso alla borsa merci a Reggio Emilia che ai tempi era collocata all’Isolato San Rocco, questi viaggi sono l’occasione per passare sempre dal Dottor Manenti in via San Domenico che lo riforniva di medicinali da portare su in montagna alle famiglie bisognose segnalate dai reduci alpini sul territorio. A tal riguardo voglio raccontare un bellissimo aneddoto legato a questa importante attività solidaristica svolta in un periodo storico caratterizzato dalla più totale miseria e indigenza in cui versava il nostro paese: io, Enrico, un giorno mi trovavo a caccia in un paesino vicino al mio, dopo aver attraversato un grosso e fitto bosco arrivai vicino ad un’abitazione dove incontrai un signore anziano con due bellissimi occhi chiari seduto su un sasso. Mi accomodai accanto a lui aspettando che i cani rientrassero dalla battuta di caccia e durante l’attesa iniziai a chiacchierare con lui: mi chiese in dialetto chi ero e risposi che ero il figlio di Tonino di Fariolo (così veniva chiamato mio padre) e gli chiesi se lo conoscesse; la sua risposta mi riempì di gioia: eccome se lo conosco! Mia madre non si sa quante volte lo abbia nominato e ringraziato, è stato grazie a quelle benedette medicine degli alpini che Tonino le portava se non è diventata cieca! Prima di quell’incontro non avevo mai pensato a quanto potessero essere importanti quelle medicine per tante persone. Durante la sua vita mio padre ha portato avanti diverse attività lavorative (gestione del mulino di famiglia, poi un allevamento di suini e un negozio di generi alimentari proprio nel paesino dove ha sempre vissuto, Fariolo di Felina) tutto con un impegno, una dedizione, una costanza e un’onestà fuori dal comune.

La porta di casa sua è sempre stata aperta a tutti, disponibile all’aiuto, all’ascolto del prossimo con una saggezza, un’allegria, una giovialità ed una sincerità ammirabili. Da figlio mi sono chiesto tante volte come sia riuscito a trasformare queste esperienze drammatiche in uno splendido esempio di vita, col sorriso sulle labbra e una parola di conforto per tutti. Di sicuro posso testimoniare la sua incrollabile fede in un destino divino che lo ha accompagnato per tutta la vita, soprattutto nei momenti più bui, e lo ha reso un cristiano esemplare e devoto. Muore il 10 ottobre 1990 nel letto di casa sua con la serenità di un angelo malgrado sei mesi di dura lotta contro un cancro incurabile al polmone, conseguenza del vizio del fumo acquisto durante la guerra perchè, come ripeteva spesso “non avevamo da mangiare ma avevamo le sigarette che erano l’unica cosa che ci toglieva la profonda sensazione di fame, dandoci un po’ di sollievo in quei giorni disperati”. A testimonianza di una vita trascorsa indissolubilmente insieme alla moglie Anita, il destino ha voluto che morissero entrambi nella stessa settimana, lei tre giorni prima ( il 7 ottobre) per una malattia incurabile nello stesso letto, uno accanto all’altro anche negli ultimi istanti di vita. Concludo solo facendo una breve considerazione: se ci può essere un senso in questi eventi mondiali passati che hanno arrecato così tanto dolore e sofferenza all’intera umanità e portato il genere umano sull’orlo del baratro è proprio quello di non dimenticare mai queste persone, le loro incredibili vite e storie, il loro sacrificio, in tanti casi purtroppo anche estremo, e la capacità che quella generazione ha avuto di trasformare una tale immane tragedia nelle fondamenta democratiche del nostro paese.

Enrico Santi e famiglia

















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