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176 opere del pittore reggiano Alberto Manfredi donate alla Fondazione Manodori

É “fra i pochi pittori che sanno ancora disegnare”, diceva di lui il suo maestro, Mino Maccari. E il pittore reggiano Alberto Manfredi di disegni, olii, incisioni ed acquerelli ne ha fatti tanti. Molti tappezzano le pareti della casa di Giacomo Riva, collezionista ed amico dell’artista, in via del Guazzatoio a Reggio Emilia.

Una ‘casa museo’ in cui, durante gli anni, le opere di Manfredi sono diventate le pareti, come le quinte di un proscenio, a raccontare una passione e una dedizione esclusive che hanno attraversato tutta la vita di Giacomo Riva.

Come tutti i collezionisti veri, che creano un rapporto anche affettivo con gli oggetti raccolti, Riva si è posto il problema di fare in modo che continuino ad essere visibili ed apprezzate da un ampio pubblico. Ha quindi donato, in accordo con la moglie Annamaria, una selezione di 176 pezzi alla Fondazione Manodori, un ente che egli considera, e che è, al servizio della città e del territorio.

“Ancora una volta – ha detto il presidente della Fondazione Manodori, Romano Sasstelli – la Fondazione ha avuto la possibilità di acquisire opere di un autore reggiano, che per spessore artistico e vocazione esce dai confini provinciali nell’ambito dell’arte contemporanea. Siamo lieti di questo ‘dono’ che ci è stato fatto e cercheremo di valorizzarlo”.

Condividendo l’intento che siano messi a disposizione di studenti, appassionati, critici e cultori d’arte, la Fondazione ha quindi realizzato una mostra monografica su Alberto Manfredi nel 2017 e ha poi adibito alcune sale a Palazzo da Mosto, in centro storico a Reggio Emilia, ad un’esposizione permanente di una selezione di dipinti, disegni, incisioni e acquerelli che sarà visibile gratuitamente durante le aperture delle mostre che si tengono a Palazzo.

Spiega Giacomo Riva: “Ho abbracciato, scelto definitivamente l’opera di Manfredi per la mia collezione perché ho sentito che cacciava via, nel tempo, tutti gli altri autori che avevo cominciato a collezionare: su una parete, il quadro più debole soccombe. Posso dire di avere goduto della benevolenza dell’artista: mi faceva scegliere le opere, spesso in una sorta di rito che si consumava ad ogni fine mese, quando lui metteva, l’una all’altra accostate su una sorta di cavalletto, i cinque o sei dipinti realizzati in quel mese e cominciavano a discuterne, a leggerli assieme. Per dieci anni non ho mai osato avanzare delle critiche, finché ruppi un giorno il ghiaccio e gli dissi – io e Manfredi pur potendoci considerare amici ci siamo sempre dati del lei – che un certo quadro era “molto brutto”. A volte mi fuorviava nella lettura e nel giudizio, ma lo rispettava. In sessant’anni di frequentazione della pittura di Manfredi, credo di avere visto 1.000-1.200 dipinti suoi. Penso che mi abbia ceduto molti dei suoi quadri più belli perché sapeva che non li avrei venduti”.

“Sono convinto – prosegue – che nel Novecento Reggio Emilia abbia avuto due veri grandi pittori: Giovanni Costetti e Alberto Manfredi. Come dimenticare che Manfredi eccelleva in tutte le tecniche cui si è dedicato: l’incisione, dove padroneggiava l’acquaforte e la puntasecca, nell’acquerello, nella pittura, dove ha lavorato a una varietà di soggetti, tra cui i ritratti e gli autoritratti, le modelle, le nature morte, gli animali, i paesaggi. Credo di avere alcuni dei più bei paesaggi realizzati dall’artista, avendo sempre amato di più le figure e quindi avendo acquistato i paesaggi solo quando mi impressionavano davvero. In un certo senso, Manfredi veniva dal libro, era un grande lettore che conosceva tutta la migliore letteratura sia europea, sia quella internazionale. Con Bufalino, quando era suo studente, si era cimentato con I fiori del male di Baudelaire. E conosceva tutta la pittura, faceva centinaia chilometri per andare a vedere un dipinto in una chiesa, visitava le mostre. Andai con lui a Colmar per vedere il Cristo di Grünewald e a Parigi per visitare una mostra di Matisse”.
















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