Sono passati quasi quarant’anni da quando i socialisti, con l’articolo di Bettino Craxi sulla “grande riforma delle istituzioni”, aprirono il dibattito sulla riforma della Costituzione. Allora la nostra era una voce isolata, anche se già da allora era evidente la necessità di correggere la deriva assembleare in cui era caduto il nostro parlamentarismo. “La riforma costituzionale rientra nei poteri del Parlamento e la necessità di un bilancio e di una verifica storica è ormai fortemente sentita. Anche gli edifici più solidi e meglio costruiti, ed il nostro edificio costituzionale, ha dimostrato di esserlo”, scriveva nel 1979 Bettino Craxi, “si misurano con il logorio del tempo. Le esperienze fatte e vissute possono qui dare la mano di una accorta revisione che ponga nelle migliori condizioni di funzionamento i fondamentali poteri dello Stato democratico, consolidi i diritti dei cittadini, favorisca il miglioramento delle relazioni sociali. Vi sono problemi che riguardano l’esercizio del potere legislativo, la stabilità e l’efficacia dell’esecutivo, il riadeguamento di istituti e di strutture amministrative alle nuove realtà ed alle nuove esigenze funzionali”. Qualche anno dopo, il segretario socialista scriveva che “resistenze conservatrici si sono riaffacciate e si riaffacciano nella vita politica nazionale ogni qual volta vengono posti i temi del rinnovamento. Che la situazione italiana soffra di un mancato adeguamento della vita istituzionale alle esigenze proprie di quella che è stata definita «una democrazia governante», ed ai problemi nuovi posti dalla complessità crescente della moderna società industriale, giunta in Italia al suo stadio maturo, risulta evidente da molti anni. Alla richiesta volta alle forze politiche di applicarsi ad individuare ed attuare le linee di una «grande riforma» delle istituzioni” si era reagito, scriveva Craxi, con “un polverone di sordità, incomprensioni, deliberati equivoci, ingiustificati allarmi. «La Costituzione non si tocca», è stata la parola d’ordine dei conservatori, in questo caso di vario colore, che ha finito con il sopravanzare le diverse sensibilità che pure emergevano nel mondo politico e la rinnovata attenzione di circoli intellettuali di studiosi e di esperti”.
In seguito i socialisti proposero anche, sulla scia di quanto sostenuto alla Costituente da Piero Calamandrei, di mutare radicalmente la forma di governo in senso presidenzialista, una proposta che non venne accettata. Ma molti concordarono sull’opportunità di rafforzare l’esecutivo e di semplificare il procedimento legislativo, anche sull’esempio di altre democrazie europee che pure avevano adottato la forma di governo parlamentare.
Poi le vicende dei primi anni ‘90 fecero sì che si operasse una cesura nella continuità del sistema politico, e alla crisi del sistema si rispose con una semplice riforma elettorale, prescindendo dalla pur necessaria revisione della Costituzione: ed avere limitato la riforma istituzionale alla sola legge elettorale è fra le cause non ultime della crisi politica che stiamo vivendo.
A sanare questo vizio d’origine del nuovo sistema politico, del resto, non sono serviti neanche i velleitari tentativi di mutare la forma di Stato in senso federalista: e fra i meriti della riforma che verrà sottoposta a referendum c’è la correzione del sistema di “competenza concorrente” tra Stato e Regioni, e la attribuzione allo Stato di competenze sicuramente statali e non regionali. Portare nella legislazione nazionale il punto di vista delle Regioni, con il nuovo Senato che le rappresenta, varrà a superare conflitti di competenze che attualmente si affollano davanti alla Corte costituzionale, quando non sfociano addirittura, come è avvenuto di recente, nella convocazione di referendum popolari da parte delle Regioni contro lo Stato.
Quanto ai rapporti fra governo e Parlamento, non si può ignorare che oggi, benché il governo non sia così forte come in altri paesi, il Parlamento è sempre più debole: mentre solo regolando con maggiore chiarezza gli equilibri fra le due istituzioni c’è la possibilità che entrambe si rafforzino, e una regolamentazione più rigorosa dell’uso del voto di fiducia può impedirne l’abuso, perchè i governi, di fronte alle lungaggini del procedimento legislativo, hanno molto spesso usato lo strumento del voto di fiducia che strozza il dibattito parlamentare, e che ora nei confronti di una delle due non potrà essere usato, a fronte di obiezioni di merito fondate e sostenute da adeguato consenso. E’ vero che in Italia vengono approvate ogni anno molte leggi, ma se si guarda al loro contenuto, si può vedere che si tratta spesso di leggi di minore importanza, mentre le leggi di primaria importanza attendono anni prima di essere approvate. Tra le cause di questi ritardi c’è anche il sistema, unico tra le grandi democrazie europee. di un bicameralismo paritario, con due camere elette nello stesso modo, che fanno le stesse cose, che devono concordare su un identico testo perchè si arrivi alla approvazione di una legge.
Non ci sfugge, peraltro, che il testo che verrà sottoposto al giudizio degli elettori non risolve tutti i problemi, e presume anzi ulteriori interventi di adeguamento dell’edificio costituzionale. Ed è auspicabile che essi prendano corpo in un contesto meno condizionato da opportunismi politici di cortissimo respiro come quelli che hanno caratterizzato negativamente l’iter parlamentare della legge di revisione costituzionale.
E’ anche per sanzionare lo sfrenato politicismo del variegato ed incoerente fronte degli oppositori, del resto, che invitiamo gli elettori a votare Sì. Ma è soprattutto perché con questa riforma giunge ad un primo approdo un processo che avviammo noi socialisti quasi quarant’anni fa.
Comitato dei Socialisti Modenesi per il Sì al Referendum Costituzionale