Essere in grado di predire l’efficacia di un trattamento chemioterapico nelle fasi iniziali di terapia sul paziente affetto da linfoma di Hodgkin risparmiandogli, a seconda della risposta, di sottoporsi a cure intensive ed effetti collaterali spiacevoli.
Questa è la nuova potenzialità associata alla apparecchiatura PET TAC evidenziata da uno studio internazionale pubblicato oggi dalla più autorevole rivista scientifica in campo medico nel panorama mondiale, il New England Journal of Medicine. Lo studio è stato svolto con il contributo importante della Ematologia di Reggio Emilia diretta dal dott. Francesco Merli.
Oltre 1.200 pazienti con linfoma di Hodgkin in stadio avanzato, la neoplasia dei linfonodi che colpisce prevalentemente giovani adulti, sono stati interessati dal progetto che ha visto collaborare sperimentatori italiani, europei e australiani, coinvolgendo complessivamente sette diversi paesi.
Gli sperimentatori hanno valutato l’impatto del trattamento chemioterapico iniziale sottoponendo i pazienti ad un esame PET/TAC, la Tomografia ad Emissione di Positroni associata alla Tomografia assiale computerizzata. Il test per immagini, grazie alla somministrazione di piccole quantità di glucosio radioattivo, permette, infatti, di evidenziare le zone colpite dal linfoma. L’esame PET/TAC veniva ripetuto dopo 2 cicli di chemioterapia standard (PET-2) e, in base all’esito, i pazienti proseguivano il trattamento con una terapia più o meno intensificata.
Lo studio ha dimostrato che i pazienti con esito negativo dell’esame PET e conseguente prosieguo di terapia meno intensivo mostravano le stesse percentuali di guarigione di quelli che ricevevano il trattamento standard e avevano il beneficio di affrontare minori esiti tossici.
I pazienti che, dopo due cicli di chemioterapia standard, presentavano una PET-2 positiva (cioè con residui persistenti di malattia) venivano invece avviati a regimi di chemioterapia intensificati, ottenendone beneficio.
Il professor Peter Johnson, dell’Università di Southampton, responsabile del Cancer Research inglese e coordinatore dello studio ha commentato: “La maggior parte dei pazienti con linfoma di Hodgkin può oggi essere curata con successo: in questo studio più del 95% dei pazienti erano vivi dopo 3 anni dal trattamento, ma rimaneva il problema della tossicità da trattamento. Questo studio ci ha permesso di personalizzare la cura per ogni paziente sulla base della risposta dopo due cicli. Questo approccio si è dimostrato molto vantaggioso per i pazienti con linfoma di Hodgkin e può oggi essere considerato il nuovo standard di riferimento”.
Il Professor Stefano Luminari, coautore dello studio e responsabile del Programma di Ricerca Clinica Oncoematologica, presso la S.C. di Ematologia dell’Arcispedale S. Maria Nuova- IRCCS di Reggio Emilia, riferisce: “Questo progetto, reso possibile grazie alla partecipazione volontaria di molti pazienti e alla dedizione dei ricercatori, ha finalmente dimostrato come attraverso l’utilizzo delle tecnologie più innovative sia possibile ottimizzare il percorso di cura dei malati. Rappresenta, inoltre” conclude Luminari “un grande esempio di efficace collaborazione internazionale tra specialisti per aiutare i pazienti a vivere meglio dopo il tumore”.
“Lo studio, nato da una intuizione dei ricercatori, è stato condotto senza il supporto delle case farmaceutiche e va nella direzione dell’ottimizzazione delle risorse, argomento estremamente attuale” spiega Francesco Merli “Senza l’aggiunta di nuovi e costosi farmaci ma con l’utilizzo ragionato di una metodica diagnostica avanzata come la PET è stato dimostrato come sia possibile migliorare la qualità della cura. Tale esperienza non sarebbe stata possibile presso il nostro centro se non vi fosse una attiva collaborazione con la Medicina Nucleare diretta dal dott Annibale Versari da molti anni all’avanguardia in Italia nell’applicazione della PET a questo tipo di patologia”.
Nella foto, da destra: Francesco Merli, Stefano Luminari, Annibale Versari