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Quando la mafia diventa davvero…cosa nostra. Al festival della legalità si è parlato della ‘ndrangheta in Emilia

tavolo‘Ndrangheta in Emilia, e dunque anche la recente, clamorosa inchiesta Aemilia, al centro della seconda mattinata di Noicontrolemafie, il festival della legalità promosso per il quinto anno consecutivo dalla Provincia di Reggio Emilia in collaborazione con Università, Comune di Reggio Emilia e Regione Emilia-Romagna. In cattedra – davanti a un platea di studenti delle superiori e moderati dal direttore di Radio Bruno, Pierluigi Senatore – il direttore scientifico del festival, lo storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso, Vito Zincani, già procuratore capo del Tribunale di Modena, il consigliere con delega alla legalità della Provincia di Reggio Emilia, Enrico Bini, e la giornalista del Resto del Carlino, Sabrina Pignedoli.

E’ stato proprio Enrico Bini – ex presidente della Camera di commercio al quale, come ha ricordato Nicaso, “dobbiamo essere grati per essere stato il primo a segnalare le anomalie del settore dell’autotrasporto” – ad aprire la giornata,  “emozionato nel vedere tanti giovani, che voglio ringraziare insieme alle scuole e agli insegnanti per l’appoggio che ci hanno sempre dato nelle battaglie a favore della legalità”.

“Nella lotta alla mafia non siamo all’anno zero, purtroppo nel mondo imprenditoriale siamo sotto zero, mentre nel mondo politico si è fatto qualcosa di più e si è compiuto qualche passo in avanti”, ha tra l’altro detto Bini ricordando anche “il silenzio assordante che ha accompagnato le prime coraggiose iniziative del prefetto De Miro da parte di chi, proprio come il sistema imprenditoriale reggiano, doveva invece dire qualcosa”.

Antonio Nicaso ha quindi analizzato del dettaglio il profilo della ‘ndrina presente nel Reggiano, “che non è una  ‘ndrangheta di serie B, ma quella che fa capo a Nicolino Grande Aracri, un boss che l’inchiesta Aemilia ha confermato avere rapporti con politici e imprenditori, perfino magistrati di Cassazione attraverso avvocati compiacenti, con una commercialista di Bologna convinta a fare operazioni particolari sul mercato legale, che aveva contatti con la massoneria e con un monsignore che inconsapevolmente si era prestato a far trasferire un detenuto”. “Una ‘drina che non è comparsa ora dal nulla – ha aggiunto Nicaso – ma che è stata protagonista oltre vent’anni fa della faida con i Dragone, Antonio faceva il bidello a Quattro Castella, vincendola e riuscendo a mettere le mani in questa terra appetibile sulla grande ricchezza della mafia, il traffico di cocaina, e stipulando un accordo strategico con i casalesi: a loro il Modenese, a Grande Aracri il Reggiano”. E da allora è cresciuta sempre più, come ha confermato l’inchiesta Aemilia e chi questa indagine l’ha raccontata, come la giornalista reggiana del Carlino Sabrina Pignedoli, citata anche lei nelle carte dei magistrati come cronista coraggiosa che ha rifiutato pressioni per pubblicare notizie aggiustate. “Anche io quando ho iniziato a lavorare non credevo che a Reggio esistesse la ‘ndrangheta – ha ammesso – Tutto è cambiato con l’operazione Pandora e una intercettazione che lessi e che mi lasciò senza parole: tre persone che uscivano da una pizzeria di Montecchio e in macchina si mettono a parlare di uccidere qualcuno a colpi di bazooka…”. Da allora ha iniziato a indagare, a leggere carte, ad annotare nomi e rapporti e a raccontare di mafia, fino a spingere un poliziotto compiacente a minacciarla di “non scrivere più di certe persone”. Lei, ovviamente, ha continuato, ma non tutti hanno detto no alla mafia: “L’economia, ad esempio, ha voluto usufruire di certi servizi perché era comodo, ha preferito chiudere gli occhi, perché i soldi sono utili e non puzzano”, ha denunciato.

Ma quali i rimedi alle infiltrazioni della mafia nella ricca Emilia? Per il magistrato Vito Zincani, uno su tutti: “La trasparenza, soprattutto la trasparenza può spezzare il matrimonio innaturale tra mafia e imprenditoria, perché è solo nella oscurità che si coltivano certi rapporti”. Ma, purtroppo, in Italia non si fa abbastanza: “Abbiamo perso la battaglia dei falsi in bilancio, e da quando lo abbiamo fatto la nostra economia è andata a rotoli; non abbiamo ancora abbastanza  trasparenza nei pagamenti, visto che il nostro è l’unico Paese del mondo occidentale nel quale oltre il 60 per cento dei pagamenti continua ad avvenire in contanti – ha detto – Ma è anche vero che, da noi, la pressione fiscale è pari al 70 per cento e che, in generale, è il nostro modello complessivo di sviluppo ad aver subito un forte condizionamento che appartiene anche a scelte di natura politica: leggi e normative sono fondamentali per contrastare le mafie, se l’Italia non si libererà da questo abbraccio non decollerà mai. Così come è importante investire nella scuola e in voi giovani…”.

Già, i giovani. A fine dibattito, quando la parola è passata agli studenti reggiani, tante le domande, ma principalmente un unico, accorato interrogativo di fondo: ma noi, cosa possiamo fare per contrastare le mafie? Altrettanto accorate, le risposte. Per Nicaso “rispettare le regole e lavorare, evitare la logica del compromesso e le raccomandazioni, essere onesti e coerenti, cercando di essere cittadini responsabili, sentinelle vigili del territorio: ma soprattutto studiare, distinguervi, perché solo i sacrifici rendono liberi”. Per Zincani  “isolare il modello culturale del mafioso che in alcune aree si presenta come persona di successo: studiare perché la vostra idea della mafia sia quella corretta, quella di una organizzazione criminale nociva, non qualcosa che dà successo e facile denaro”.  Per Pignedoli “rispettare diritti e doveri, essere cittadini responsabili delle proprie azioni, anche nelle piccole cose, come ad esempio segnalare la targa di chi tampona un’altra auto in un parcheggio e fugge”. Per Pierluigi Senatore “fare come Sabrina: saper dire di no”.

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