La tentazione è comprensibile, appropriarsi mensilmente di una quota del TFR ha il sapore del “meglio un uovo oggi che una gallina domani” e in tempi di magra anche un uovo ha il suo potere nutritivo.
Ma le insidie che si nascondono in questa operazione sono molteplici per il lavoratore e anche per le imprese, quindi prima di giocare ogni giorno agli annunci sarebbe meglio verificare pro e contro delle proposte che , senza alcun coinvolgimento delle rappresentanze di lavoratori e imprese, vengono lanciate nel dibattito pubblico.
Innanzitutto si perde la ragione per cui è nato questo istituto, che è salario differito cioè una sorta di assicurazione nel momento in cui cessa il rapporto di lavoro in attesa della liquidazione della pensione o per affrontare eventuali periodi di disoccupazione e di questi tempi dovrebbe essere una preoccupazione ancora più sentita.
In secondo luogo è evidente che viene a mancare la possibilità di un risparmio vincolato che consente di fare fronte a necessità improvvise ed importanti per le quali è possibile chiedere un anticipo del TFR anche in costanza del rapporto di lavoro, come ad esempio per spese mediche o per acquistare la casa per sé o per i figli.
Oltre a questa valenza di sicurezza che il TFR riveste c’è poi il versante della tassazione che potrebbe appesantirsi parecchio passando dalla tassazione separata ( intorno al 23%) a quella ordinaria ( mediamente oltre il 30%) e facendo uscire il lavoratore dai limiti di reddito che consentono di avvalersi del bonus degli 80 euro ( 24-26.000 euro annui lordi).
L’aspetto, però, più preoccupante è che si stroncherebbe definitivamente la possibilità di dare una seria prospettiva pensionistica alle generazioni che, in seguito alla riforma Dini del ’95 hanno l’obbligo di assicurare una pensione integrativa rispetto a quella pubblica in modo da garantire un futuro previdenziale dignitoso. Togliere il TFR a questo circuito, significa impedire di fatto la prospettiva di un trattamento integrativo di cui il TFR rappresenta la quota più significativa di investimento.
C’è dunque da chiedersi chi ci guadagna?
Le imprese no perché perderebbero una importante liquidità ora a loro disposizione e rischieremmo di dover affrontare l’accelerazione di procedure di crisi aziendali, soprattutto per le piccole realtà.
I lavoratori neppure perché a fronte di un beneficio di liquidità immediata in busta paga di circa 55 euro mensili per stipendi di 1500 euro, si troverebbero un costo maggiore da pagare in termini di tassazione e si giocherebbero definitivamente la prospettiva previdenziale.
Per non parlare del rischio che qualcuno possa interpretare questo” aumento “come la sostituzione degli aumenti contrattuali e in un momento in cui 8 milioni di lavoratori aspettano da anni il rinnovo del CCNL, l’idea che questa interpretazione prevalga ci preoccupa non poco.
Pare veramente uno specchietto per le allodole… Da una parte si fa col bonus una operazione di riequilibrio fiscale, dall’altra se ne caricano in parte i costi sui lavoratori ipotecandone irrimediabilmente il futuro previdenziale.
(Tamara Calzolari, Segreteria Cgil Modena )