Da ultimo ci si era messo pure il bel tempo a gravare sul settore moda e a tenere a debita distanza i clienti dai negozi di abbigliamento. Un fattore in più che va ad assommarsi alla crisi economica e alla ridotta capacità di spesa della gente, con previsioni in tema sempre di consumi che per il prossimo biennio non si discostano minimamente dal segno meno: -0,9% quest’anno, -1,0% il prossimo, -1,1% il 2013. Il quadro generale quindi per il settore moda/abbigliamento modenese è a tinte decisamente cupe. Se il calo del fatturato è la prima voce che salta agli occhi, gli operatori si trovano a fare i conti con una pressione fiscale crescente, giacenze di magazzino che gravano sulla programmazione e problemi coi fornitori. Senza contare che la boccata d’ossigeno garantita al solito dai saldi di fine stagione, nel 2011 è venuta a meno. “E’ questa la realtà – dichiara Isabella Sabadini, presidente di FISMO(Federazione Italiana Settore Moda) Confesercenti Modena – con cui si misurano negozianti ed imprenditori, soffocati tra il calo dei consumi e manovre economiche che inibiscono ogni sorta di ripresa. Una situazione, emersa in modo fin troppo netto nell’indagine che FISMO ha condotto tra gli operatori; e che in assenza di interventi di contrasto, rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza di molte attività commerciali”.
Il campione
Quasi 100 i negozi che trattano abbigliamento, calzature e accessori moda, prevalentemente a conduzione famigliare, monitorati nel corso dell’analisi condotta da FISMO Confesercenti sul territorio provinciale. Il 75% sono imprese di tipo tradizionale con capi multimarca, il 17% specializzate monomarca, mentre solo l’8% si suddivide tra franchising (5%) e altro. Sono ubicati prevalentemente il 78%, nei centri storici, mentre il restante 22% tra periferia e centri commerciali (4%). Vendono principalmente abbigliamento donna (44%), uomo (21%), intimo (17%) pelletteria/calzature (10%) e abbigliamento per bambini (8%). Per le forniture, il 71% si rivolge ad aziende di prontomoda, il 24% al programmato. Quanto ai canali utilizzati per l’approvvigionamento si tende a privilegiare i grossisti (68%), meno i rappresentanti (22%) e i produttori diretti (10%).
Approvvigionamento del negozio: tra cambiamenti, problemi e rapporto coi fornitori
La crisi economica, oltre a rientrare tra le cause che hanno favorito i cambiamenti nella metodologia di approvvigionamento, con ogni probabilità è tra quei fattori che li hanno accentuati. Dal monitoraggio, rispetto a pochi anni fa, la tendenza che si rileva tra gli operatori commerciali è un sostanziale spostamento dal programmato – preferito ancora nei negozi di pelletteria e calzature – verso il pronto moda, mentre aumenta chi fa gli ordini direttamente alle aziende via web. Crescono poi le difficoltà a trovare gli articoli che servono al momento del bisogno; senza contare inoltre che chi si affida solo ai prodotti in campionario, non ha i modelli offerti dal prontomoda. Con i fornitori poi, sono diversi i problemi che gli operatori lamentano: non garantiscono il ritiro dell’invenduto; permangono difficoltà di riassortimento durante l’anno; c’è poca collaborazione nella verifica se un prodotto piace o meno; i rischi commerciali sono a carico dell’esercente; ci sono difficoltà a concedere sconti e la merce ordinata viene consegnata a più riprese.
Invenduto giacenze di magazzino e la ‘questione saldi’
Quasi un terzo della merce, evidenziano gli operatori commerciali, rimane nei negozi invenduta, anche dopo i saldi di fine stagione. Le quantità maggiori, il 42% del totale, riguardano calzature e pelletteria autunno/invernali. Nei magazzini restano poi quelle estiva (35%) e in egual misura l’abbigliamento della stagione fredda. Quantità minime non oltre al 10%, si segnalano solo per l’intimo della primavera estate. Il problema delle giacenze di magazzino continua ad essere recepito con molta preoccupazione dagli intervistati: incide sulle strategie di programmazione futura, che tende ad essere modificata limitando il più possibile i nuovi acquisti. A tal senso poi nemmeno i saldi rappresentano più una valvola di sfogo, anzi: “L’ennesimo colpo alla categoria – sostiene Sabadini – è stato inferto nel momento in cui si sono state indicate le date di inizio e fine delle vendite di fine stagione. Anziché regolamentare le vendite promozionali, si è preferito fissare in modo del tutto arbitrario l’inizio e la fine dei saldi a periodi che per nulla coincidono con il reale cambio di stagione. Complice anche l’andamento climatico, ci si è trovati dunque nella situazione paradossale di iniziare i saldi estivi all’avvio effettivo della stagione (2 luglio) e di doverli interrompere al suo culmine (30 agosto). Questa improvvida decisione, assunta, contro le indicazioni di FISMO Confesercenti si è ripercossa negativamente su tutto il comparto moda: dai produttori, ai grossisti, ai negozianti. Se in futuro si eviterà di considerare le reali esigenze del settore, FISMO Confesercenti Modena non esclude di autoregolamentarsi per fissare e circoscrivere in modo autonomo i saldi al reale periodo di fine stagione”.
Studi di settore, un vincolo capestro
Stanchi di essere descritti come una categoria di evasori fiscali, gli operatori fanno sapere che, “la legislazione attuale ci impone di adeguarci a studi di settore che fissano parametri su cui pagare imposte spesso superiori rispetto ai reali margini di guadagno realizzati”. Tasse, in altri termini su incassi solo virtuali e mai fatti. “Ci attiveremo come FISMO – dichiara Sabadini – presso l’Agenzia delle Entrate affinché gli studi di settore per l’anno 2011 siano rivisti e chiedendo l’applicazione di correttivi che tengano conto del drastico calo delle vendite che sta caratterizzando questi mesi.
Qualità dei prodotti, importanza del Made in Italy e rapporto con la clientela
Maglie, cinture, pantaloni, scarpe… meglio se Made in Italy! Rappresentano un valore aggiunto per l’85% degli operatori interpellati, molto apprezzato e ricercato dalla clientela. Ragione che induce ad avere il 65% della merce in assortimento, Made in Italy. Differente però il giudizio che i commercianti danno a proposito della qualità complessiva dei prodotti: peggiorata nel corso del tempo secondo il 70% e migliorata solo per il 10% degli intervistati. Quanto alla clientela, risulta attratta molto da novità e moda, un po’ meno dalla qualità, mentre è attenta anche alla vestibilità di un capo. Tra le cause di insoddisfazione invece consumatori e avventori dei negozi lamentano l’elevato prezzo dei prodotti (65%), la mancanza di assortimento (30%) e di taglie adeguate (5%).
Aziende in difficoltà
“Il futuro? A rischio”, dicono. Nell’insieme che comprende contrazione dei consumi e problemi con fornitori e invenduto, si aggiungono anche altre difficoltà che fanno temere non poco per il futuro dei tanti piccoli negozi, anello finale della ‘filiera moda’. In primo luogo incide sull’attività il calo del fatturato: un handicap per il 25% degli intervistati; quindi la pressione fiscale (23%) e l’affitto dei locali (20%), in aumento in entrambi i casi; mentre pesano anche l’aumento delle tariffe delle utenze (15%) e le difficoltà di accesso al credito (4%): aspetto questo che vede lievitare le preoccupazioni della categoria. “A fronte di questo prospetto, siamo a ribadire la necessità di regole certe, a tutela delle tante piccole attività commerciali che, nonostante le difficoltà continuano ad animare i centri storici della nostra provincia. Crediamo che il termine di liberalizzazione, debba assicurare a livello normativo pari opportunità a tutti sul mercato, per questo non si può più prescindere da una regolamentarizzazione di tutte quelle politiche di promozione – evidenzia Sabadini che aggiunge – che oggi penalizzano le piccole e piccolissime aziende a conduzione famigliare”. E il riferimento va ad outlet, spacci aziendali e grande distribuzione, “Competitor, nonché elementi di distorsione veri e propri della filiera moda che, anziché puntare e cercare di ottimizzare il rapporto qualità/prezzo dei prodotti offerti, attuando pratiche commerciali scorrette dato il vuoto normativo esistente, mettendo di fatto fuori mercato i negozi tradizionali, in cui la qualità dei prodotti proposti è la base del rapporto fiduciario con la propria clientela”.