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PAB. Parco culturale dell’Ariosto e del Boiardo, mercoledì con Marco Baliani

ritratto_ marcobalianiUltimo appuntamento al Mauriziano mercoledì 15 luglio alle ore 21.30 con Marco Baliani per la rassegna PAB, Parco culturale dell’Ariosto e del Boiardo, progetto ideato dalla Biennale del Paesaggio della Provincia di Reggio Emilia in collaborazione con i Comuni di Reggio Emilia, Albinea, Canossa e Scandiano che ha portato grandi attori, scrittori e narratori nella splendida cornice scenografica naturale del parco antistante quella che fu la casa di Ludovico Ariosto nei primi anni della sua vita e a più riprese nel corso della giovinezza (celebri sono i versi dedicati al ricordo del Mauriziano nella IVa satira del poeta).“Tanti anni fa in terra di Germania viveva un uomo a nome Michele Kohlhaas. Era allevatore di cavalli e come lui lo erano stati il padre e il nonno…”. Comincia così l’affascinante racconto di Marco Baliani, nativo di Verbania, professione “raccontatore di storie”. Attore, regista e drammaturgo tra i più originali nel panorama teatrale italiano. Baliani, solo sulla scena, seduto in una sedia, vestito di nero, per circa 90 minuti, incanta un pubblico di ogni età, narrando la storia realmente accaduta, nella Germania del 1500, di un mercante di cavalli, vittima della corruzione dominante della giustizia statale. La spirale di violenza generata dal sopruso subito dal protagonista offre lo spunto per una riflessione sulla questione della giustizia e sulle conseguenze morali che la reazione dell’individuo all’ingiustizia può comportare. Baliani, attraverso la sua mimica, la sua gestualità, riesce a coinvolgere anche lo spettatore più distratto, facendogli immaginare i cavalli del protagonista, le sue paure, la sua sete, la sua vana attesa di giustizia e la decisione finale di scegliere il cappio di una forca. Perfetto come “raccontatore di storie”, supportato dalla sua mimica ed espressività, frutto di uno studio attento, Marco Baliani dà un saggio di teatro di narrazione, trasformando lo spettatore in ascoltatore e con allusioni, mette a confronto la vicenda di Kohlhaas con i temi sanguinosi più recenti. “Kohlhaas”, scritto a quattro mani con Remo Rostagno nel 1990, è ormai uno spettacolo “cult”, con centinaia di rappresentazioni, amato da pubblico e critica.

“E’ stata una sfida bella e difficile trasferire in narrazione e parola orale un universo così lontano e complesso come quello della parola scritta di Kleist. Con Remo Rostagno, ci siamo messi alla ricerca di una nuova forma ove far precipitare l’anima della vicenda, che fin dall’inizio ci aveva affascinato. Le domande senza risposta, che solleva la storia di Kohlhas (cos’è la giustizia, quella umana e quella divina, e come può l’individuo ricomporre l’ingiustizia) fanno parte profondamente dei percorsi della mia generazione, quella segnata dal numero di riconoscimento ‘68”.

Kohlhaas segna una linea di faglia chiarissima: la completa acquisizione di una poetica e di una solidità linguistica danno forma a un’opera adulta e potente, che resterà simbolo e talismano di tutto il lavoro di Baliani. Si tratta infatti di una scrittura scenica insieme inedita e persistente, che incontra il favore non soltanto della critica (e non necessariamente di quella più attenta al nuovo) ma anche di un pubblico numeroso. Nella storia del teatro italiano degli ultimi anni, Kohlhaas è forse uno degli spettacoli che è rimasto più a lungo nei cartelloni, percorrendo le nostre scene in maniera capillare: dai centri di ricerca alle piccole sale di provincia, attraverso i festival estivi e le tante rassegne tematiche che sono andate formandosi sulla scia del successo della narrazione teatrale. Tale persistenza scenica di Kohlhaas si spiega anche – ma non solo – con la grande “leggerezza” economica dello spettacolo: un attore, vestito di semplici abiti comuni, che siede in scena su di una sedia di legno, illuminato da una luce fissa; nessuna scenografia, e spesso neanche un tecnico, né un amministratore di compagnia. È uno spettacolo che sta in una valigia, che viaggia in macchina con il suo autore-attore, e che sa adattarsi a spazi anche non convenzionali; che predilige condizioni di intimità nella relazione con il pubblico; che può compiersi anche all’aperto, in una piazza o in un cortile. Questa è la prima grande rivoluzione di Kohlhaas, che senz’altro risente di una certa pratica del teatro come forma di intervento nei diversi contesti sociali: come già nelle esperienze di animazione e nel lavoro sulle fiabe in relazione alle infanzie delle periferie, diventano essenziali l’immediatezza dell’approccio, la velocità di allestimento e la mancanza di grandi finzioni teatrali.

L’altra rivoluzione è di carattere linguistico e più propriamente artistico. Renato Palazzi – uno dei primi critici a segnalare il lavoro di Baliani e a seguirne sistematicamente gli sviluppi – scrisse che lo spettacolo dimostra “con un’evidenza impressionante come l’apparato formale del teatro possa risultare inutile e fuorviante di fronte all’urgenza abbagliante di una storia da raccontare”, e come si possa tenere inchiodato il pubblico “evocando semplicemente degli avvenimenti”, se a sostenere il racconto sono “un’acuta percezione dei percorsi interni del materiale narrativo e […] una straordinaria intelligenza teatrale nel comunicarli allo spettatore”.

Kohlhaas, scritto insieme a Remo Rostagno, rappresenta per Baliani il primo incontro con un racconto letterario preesistente. Lo spettacolo sancisce inoltre una tappa fondamentale – forse la tappa fondante – della sua ricerca sulle tecniche di affabulazione. È in qualche modo l’inizio di un percorso, la formazione di una identità di attore “narrante”. Il lavoro che Baliani conduce attraverso le molteplici potenzialità della narrazione a teatro va a tracciare negli anni percorsi articolati in un territorio assai ampio; in questo contesto, Kohlhaas si staglia come exemplum di racconto “puro”. E “racconto puro” significa storia che passa attraverso il raccontatore come una corrente, con un’urgenza forte di essere detta, con regole precise di tempi e di efficacia da rispettare. Una storia che trascina e coinvolge – senza però escludere la possibilità del distacco – sia il raccontatore sia gli ascoltatori.

La storia che con la sua “urgenza abbagliante” conduce lo spettacolo è quella – già narrata da Heinrich Von Kleist e ispirata a un fatto realmente accaduto nella Germania del Cinquecento – del mercante di cavalli Michael Kohlhaas, che, subìta un’angheria da parte di un nobile, tenta dapprima di ottenere giustizia dalla legge e poi, non vedendo riconosciute le sue ragioni, si fa brigante e raccoglie attorno a sé schiere di disperati, con i quali saccheggia e devasta intere città, arrivando a scatenare quasi una guerra contro il potere imperiale e giungendo infine ad essere condannato a morte.

Il racconto di Kleist mantiene, nella rielaborazione drammaturgica di Baliani e Rostagno, l’asciuttezza e la capacità di suscitare forti visioni che ne sono il dato dominante: è un quadro a tinte intense e cupe, con pochi squarci di luce violenta che disegnano ombre scure e potenti. Ma la “lettera” è profondamente trasformata: il testo dello spettacolo si è costruito raccontando, molte volte, la storia scritta da Kleist, cercandone un ritmo adatto alla narrazione orale, testandone l’efficacia, indagando quelle parti che nella lettura possono anche passare in secondo piano ma che, per l’ascoltatore, diventano essenziali a costruire un suo flusso di immagini, a dare una materialità alle parole del narratore. Ne nasce un nuovo testo, che di quello originario conserva ben poco, ma si arricchisce di dettagli e di micro-racconti interni, e prende corpo nella partitura di gesti ed espressioni che l’attore scrive nel tempo. Un racconto che suscita domande, riflessioni talvolta amare; che scandaglia l’animo dell’uomo e della storia; che fa bruciare ancora le ferite inflitte da ogni ingiustizia e da ogni violenza, dalla rabbia e dalla ricerca disperata di una forma di diritto che tuteli lo spazio vitale di ogni uomo.

Kohlhaas rappresenta un momento di forte rigore e insieme di affascinante ricchezza per l’attore Baliani. Egli mette in atto alcune scelte che saranno poi ricorrenti in altri spettacoli di narrazione: la sedia innanzitutto, da cui non si alza mai, segno scenografico di estrema essenzialità, strumento e vincolo per il raccontatore; l’illuminazione, costituita da un solo riflettore puntato sull’attore; e infine il costume, una maglia e pantaloni neri (il classico abito dell’attore al lavoro), e scarpe, la cui percussione sul pavimento costituisce la colonna sonora dello spettacolo. I mezzi espressivi veri e propri di cui Baliani fa uso sono una sorvegliatissima mobilità del viso, una gestualità asciutta e a tratti di un’intensità lancinante, una sapiente intelligenza di ritmi che gli permette di popolare la scena immobile di apparizioni, di far vivere emozioni, di dare corpo a pensieri e, non ultimo, di entrare e uscire dai personaggi.

È proprio questa sua mobilità, questo appartenere a ciascun personaggio e al contempo alla storia, l’aspetto più interessante dal punto di vista delle tecniche, e più significativo per la collocazione dello spettacolo all’interno del percorso di Baliani. È infatti in Kohlhaas che tale arte, specifica del raccontare, ha la sua maggiore espressione, mentre nei lavori successivi troveranno spazio altre modalità di racconto, e un altro rapporto dell’attore con i suoi personaggi. Si può affermare che Kohlhaas segna un punto limite di un certo percorso, ed è forse il tentativo più alto – e in qualche modo insuperabile – di una ricerca portata avanti con ostinazione e rigore nei territori dell’affabulazione. La sua “essenzialità quasi ascetica” lo rende “spettacolo-manifesto di un ritrovato teatro di narrazione”, punto di riferimento imprescindibile per chi scelga di praticare il racconto orale come dimensione fondante dell’essere attore. Kohlhaas è infatti racconto e nello stesso tempo “teatro” nel senso più profondo del termine e anche, paradossalmente, nel senso più letterale: la creazione dell’attore Baliani fa infatti vedere, suscita nello spettatore continue visioni, che vengono poi nutrite e definite dall’immaginario e dalla memoria di ciascuno. Ogni spettatore tende così alla costruzione di un proprio racconto, di un flusso ininterrotto di figure e di accadimenti che il narratore continuamente accende e doma, e a cui le parole danno corpo e ritmo.
















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