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Festa del Tricolore: Lectio magistralis del profesor balzani, sindaco di Forlì

festa-tricolore-re“A che cosa serve una bandiera”. Testo del professor Roberto Balzani, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bologna e sindaco di Forlì per la Giornata nazionale della bandiera e il 216° anniversario del Primo Tricolore, al teatro Ariosto di Reggio Emilia.

A che cosa serve una bandiera

Roberto Balzani

La conversazione si snoda lungo alcuni temi. Si parte dall’inizio: quando nascono le bandiere? E a che cosa servono? Il contesto è ovviamente quello militare. Fin dall’antichità, infatti, il ricorso a punti di riferimento visibili e colorati è fondamentale (il rosso, nel caso delle legioni romane, è paradigmatico). Ma anche le “bande nere” di Giovanni de’ Medici sono un altro esempio famoso, all’inizio del Cinquecento. Più tardi, con la formalizzazione degli eserciti di Stato, il colore si trasferisce alle divise: al tempo di Napoleone, i francesi sono “blu”, gl’inglesi “rossi”, i russi “verdi”, gli austriaci “bianchi”.

Se il nesso fra insegna colorata e milizia è costante fino ad oggi, quando avviene il mutamento che inserisce la bandiera in un contesto civile e pubblico? Nella penisola italiana, con i Comuni e con l’adozione della croce all’interno di uno scudo diversamente colorato a seconda dei luoghi. Si tratta di un processo generalizzato, in genere risalente al XII secolo, che si accompagna al culto dei santi patroni. Come documenta, del resto, lo stesso gonfalone di Reggio Emilia. Spesso la croce cittadina è così resistente da attraversare il Medioevo e da finire addirittura nell’emblema delle squadre di calcio (vedi il Milan, fra le altre). Qui si nota la persistenza del simbolo urbano, nonostante il contesto – rispetto a quello ufficiale – risulti tutt’altro che “aulico”.

Le armi gentilizie, con la stagione delle Signorie, affiancheranno la croce comunale. Ciò avviene praticamente dappertutto. Nei pochi contesti in cui dalle Signorie si passa agli Stati regionali, l’assunzione dell’emblema del casato “vincente” nello stendardo è pressoché automatica. E così pure nell’ulteriore transito verso la monarchia (i gigli di Francia, i leoni inglesi, l’aquila austriaca o imperiale, ecc.).

La bandiera, indicativa di una comunità vasta, di uno Stato, emerge in due contesti particolari fra Cinque e Seicento, ovvero in coincidenza con le prime articolazioni proto-nazionali: le Province Unite olandesi e i Regni uniti inglesi. In entrambi i casi, occorre un simbolo di fusione: non basta più mettere insieme le armi delle dinastie, perché si tratta in realtà di processi complessi, che – vedi il caso olandese – trascendono e travolgono le strutture aristocratiche preesistenti. Così come in Gran Bretagna, d’altra parte, la bandiera indica la comunità e i territori, simbolicamente riconoscibili attraverso le croci, prima ancora della monarchia. Le bandiere appaiono sulle navi, visibili da lontano e colorate: e infatti sono due potenze marittime ad esibirle per prime. Le testimonianze in proposito sono eloquenti, e tutte relative alla Marina. Nel Regno Unito, i reparti dell’Esercito provenienti da Inghilterra, Scozia e Irlanda continueranno a combattere ciascuno sotto le proprie insegne fino ai primi del Settecento, quando si generalizzerà l’uso dell’Union Jack, che assume la forma attuale nel 1801.

Il tema della fusione si ripropone nel contesto rivoluzionario americano della seconda metà del XVIII secolo (di nuovo col rilievo territoriale, questa volta in chiave “egualitaria” – le strisce e le stelle – e non di mera sovrapposizione di croci medievali tradizionali, come nelle Isole britanniche) e, in una prospettiva più astratta e ideologica, in Francia nel 1789. L’unità nella diversità, che è alla radice del patto di cittadinanza, costituisce il cuore del tricolore rivoluzionario: che a Parigi diventa rapidamente “nazionale” (si nazionalizza nel 1792, con la guerra contro la coalizione antirivoluzionaria e la Repubblica), ma che nelle Repubbliche “sorelle”, nell’ultimo lustro del XVIII secolo, resta soprattutto espressione del nuovo potere “rovesciato”, radicato nella costituzione e nella partecipazione civica.

Occorre ancora una volta la guerra – in questo caso la lunga epopea napoleonica -, perché i tre colori della Cispadana, fondendosi con la comunità linguistica forzosamente coagulatasi nella Grande Armée multinazionale, finiscano per anticipare, sia pure per un numero esiguo di italiani, il senso dell’entità nazionale, ancora in bilico fra nazione culturale e nuove, futuribili prospettive unitarie.

Rispetto all’Inghilterra o alla Francia, dove la bandiera certifica un nuovo assetto della statualità, raggiunto attraverso una mediazione, un’integrazione fra territori o ceti, in Italia il tricolore preesiste allo Stato-nazione. Ne diventa il simbolo, infatti, in modo esplicito e definitivo, già nel 1831, tre decenni prima dell’unificazione, grazie all’intuizione di Giuseppe Mazzini, che lo sceglie a bandiera della “Giovine Italia”. L’uso del tricolore anche in contesti privati e non solo militari, caratterizza il Risorgimento e lo rende un caso assai peculiare: il tricolore è fatto proprio dal Piemonte nel ’48, ma è usato dai cittadini patrioti, in tutta la penisola, in modo aperto almeno dal 1846 e occulto da un altro decennio. Esso migra nelle insegne militari, dell’Esercito regolare o dei reparti volontari, ma nasce in un contesto civile, culturalmente esterno al potere costituito prevalente nell’età della Restaurazione.

Per questo, esso mantiene un fascino inalterato. Sebbene abbia finito poi per scandire le fasi della vita collettiva, assumendo quel rango ufficiale che spetta alle bandiere degli Stati-nazione, esso conserva una “vita propria”, che è indagabile – al di là delle ritualità e degli usi appropriati e consentiti dalla legge – nella lunga fase in cui ha rappresentato l’aspirazione all’Italia una, catalizzandone i contenuti comunitari, i valori, le speranze.
















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